GIOVANNI BOINE
di Francesco Bernardelli
da: La Stampa - Mercoledì 7 Dicembre 1938
Di quel singolare periodo della coltura italiana, tra il 1907 e il '14, che va dal Rinnovamento alla Voce e a Lacerba, coltura-eticità, coltura-misticismo, coltura-poesia, Giovanni Boine fu uno degli spiriti rappresentativi. Temperamento tormentato, risentitissimo, credeva all'arte, alla creazione artistica come a creazione di individualità; «io creo me stesso esprimendomi, mi faccio, mi dico, via via mi formo». Di questo crearsi esprimendosi, di questo formarsi via via, è testimonianza ancor viva e fremente il suo stile, spesso torbido, greve, tutto incastri, parentesi, densità fitte di immagini e di ritmo.
Fantasia, arte astrette a una certa idea del mondo e della vita; il dramma concettuale del Boine fu quello di non poter ridurre alle categorie della logica, del pensiero, irrazionale, creatrice, trionfante e confusa realtà, o diversità della vita. Nel dissidio, nella lacerazione tra il mondo ordinato, pensato, razionale, che l'intelletto definisce, e il caos disordinatissimo ma fecondo, tremendo ma attraente e affascinante, il caos di ciò che avviene, la sua anima si sperdeva in ismarrimenti paurosi, si ritrovava in attimi di irruente adesione alla natura, all'uomo, attimi-sensazioni che erano i suoi crudeli, vertiginosi attimi lirici.
Nato a Finalmarina nel 1887 (morì non avendo ancora toccato i trent'anni a Porto Maurizio nel 1917), il Boine viene a contatto a Milano, nel 1907, con gli scrittori del Rinnovamento; fa studi di religione, sui mistici spagnuoli particolarmente, cerca una guida in Blondel, medita Pascal, perde la fede ma non quella che propriamente può dirsi ansietà religiosa, che gli ripropone, direttamente o indirettamente, per tutta la vita, il problema dell’essere, il problema morale, e quella trama di poesia che lega i vari momenti, scoperte fughe e ritorni, del suo pensiero; onde la sua lirica istintiva, ruvida, integrale, può anche esser detta una specie di intellettualismo lirico.
Dalla collaborazione al Rinnovamento, passa a quella alla Voce, 1909-1914, e a Riviera Ligure, 1912-1917. Fra il '12 e il '14 pubblica Il Peccato e altre due prose autobiografiche: La città, Conversione al Codice; del '15 sono i Discorsi Militari, e, dopo la morte, a cura degli amici escono in volume Frantumi, seguiti da Plausi e Botte, e altri scritti.
E' naturale che ad uno spirito irrequieto e religioso, disposto a sentire il legame, la serietà del vivere, quello sfuggire della vita e dell'azione alla presa della razionalità suggerisse una esigentissima preoccupazione morale. Tra la ragione che inutilmente affronta la vita e lo slancio vitale che si chiarisce in categorie spirituali soltanto dopo, a cose avvenute, qual è il momento del peccato? e come lo possiamo individuare, determinare?
Si ririflette su pratica e moralità il contrasto tra impulso del vivere, che è libertà invenzione inafferrabilità, e pensiero, che è forma limite tradizione legge; da questo suo «pirandellismo» che il Tilgher in un lucido saggio ha descritto e chiarito — era propria di quegli anni un'atmosfera problematica, di acutizzata sensibilità e di incertezze, e persin nello stile del Boine già scopriamo, a questo punto, dei movimenti che si direbbero pirandelliani: «Ma questo era appunto il peccato: questo, senza che tu sappia, impeto di raffica in te» —, da questo stato di ardente scetticismo, di trepidante ma decisa volontà di vita, da questo ribellarsi e subire le estreme conseguenze dell'idealismo, viene al Boine la definizione che il peccato è l’azione. L'azione che infrange gli argini del passato, che va oltre: E perciò, egli dice, per i timidi e i delicati è dolorosa l'azione, perché vi sentono accanto il peccato.
E tuttavia l'azione è tutto. Che conta mai il soggettivismo contemplativo e razionale dell'individuo pensante, se sotto quella che è la tradizione, la legge cui il pensiero si ribella, se sotto i pregiudizi «se tu guardi ci sono mill'anni e mill'anni son più di te che sei nato da un giorno»? e come ti potrai arrestare di fronte all'azione, di fronte al peccato, se l'ordine solo sarà fatto — per poi essere disfatto ancora e rifatto nel moto incessante, e nei perenni alterni ritocchi della vita e del pensiero — se tu sarai andato « al di là della tua azione-peccato, in te assorbendo, fecondando te stesso (e la vita) del peccato commesso?».
Nel Peccato, storia d'amore di un giovane e di una novizia, di un sognatore appassionato e di una monaca che non ha ancora fatto tutti i voti, e finiscono marito e moglie, il dramma si svolge parallelo a quel prender coscienza, concreta coscienza del reale, del protagonista; è un immergersi dall'idea di moralità come norma esterna e forzata memoria, nella interiore combattuta moralità che scorre nella vita, intrisa di vita, che anche se infranta — rimorso, dolore — è tuttavia giustificazione di vita, e giustificata dalla vita. E questa mutazione equivale all'altra, è parallela all'altra dalla filosofia pura, dalla preoccupazione teoretica, mistica, dogmatica, idealistica, alla poesia; cioè all'azione come liricità, come momento intuitivo, in cui affiora e si esprime l'essenza, la sintesi dell'uomo.
Mario Novaro, che fu il direttore di Riviera Ligure, e che ha curato presso l'editore Guanda una ristampa in due volumetti di Peccato e altre cose e di Frantumi, in un Ricordo ora premesso a Frantumi e scritto pochi giorni dopo la morte del Boine, dice fra altre cose belle e acute : «La libertà raggiunta o intraveduta nell'essere ne stimolava lo spirito possente lirico, e senza avvedersene mutava l'opera sua dal campo filosofico morale a quello poetico». E ciò, possiamo aggiungere, era inevitabile in lui: era quello ch'egli esprimeva nell’idea dell'arte come creazione dell'individuo, come esigentissima necessità vitale.
Dopo la risoluzione etica e concettuale di Peccato, v'è come un ristagno nell'altalena tragica del suo spirito: « non scrive più novelle né lunghi dibattiti lirico-morali, ondeggia in una disperata-fervente moralità dionisiaco-elegiaca (Frammenti del nov. '14). E senza placarsi pure si avvia a una nuova serenità tra burrasche e lampi. Serenità e burrasche prendono decisamente forma lirica...». Ma quale poteva dunque essere la forma per un poeta siffatto, così immedesimato nella sostanza lirica del suo poetare, che considerava il fatto lirico esclusivamente come fatto di vita, come surrogato dell'azione?
Certo nessuna tradizione scolastica, rettorica, nessuna norma letteraria, accademica, poteva sovvenire ai suoi bisogni espressivi. Il suo stile è per dir così caratterizzato da uno sconfinamento continuo dalla prosa al ritmo poetico, dalla struttura logica, discorsiva del pensiero, del dibattito concettuale, all'impulso lirico che si identifica nella fulmineità dell'emozione: grido, lamento, bagliore. Al congelamento della prosa narrativa, descrittiva, imitativa della vita, opponeva egli il trasporto, il rapimento di un'intuizione rapidissima ed esauriente, passionale e lirica.
In questo senso egli può essere detto legittimamente frammentista: non per la misura breve di molte sue composizioni liriche, ma per quel sorgere ed esaurirsi dell'emozione poetica in una sintesi che sta tutta a sé, in sé, che divide lo spirito in una serie di intuizioni, ognuna delle quali eguaglia e vale, in quel momento, tutta la vita, tutte le sequenze, e il sentimento e la coscienza della vita. Nel Peccato, che è racconto psicologico morale religioso, si può cogliere bene questo germinare continuo del ritmo, dell' aspirazione, della mossa lirica nel contesto narrativo. Il periodo si condensa, si restringe, e poi scatta, si innalza su una modulazione commossa e fantastica, riprende, ripete le parole, la stessa parola in posizioni variate e accresciute di accento, di tono, e in quel contrasto di prosa e di verso incipiente incespica, si libera, ricade, e voi sentite come un malessere, quasi un fastidio, di quell'affanno e di quel turgore, ma l'affanno, ecco, vi rivela una natura viva, vera, dolente, ma nel turgore si delinea l'inizio di un canto.
Aggettivi a coppie, quasi a circuire il sentimento in tutta la sua morbida e svanente acutezza: sprezzante-notturna, quieta-canora, diffusa-riempiente, canora-composta; ritorno martellato delle parole: «Cercò del suo vecchio prete dei bimbi per dirgli, per esporgli, per dirgli», «La pazzia era in tutti i casi passata bene, bene passata», che è un'ansietà di seguire tutto il tremito e tutto il dolore di un sentimento, di uno stato d'animo; e parentesi, impuntature, inversioni, che altro sono se non rapidi approfondimenti di quella sua tensione, di quell'incantarsi e folgorare improvviso di una sempre presente liricità?
Che avrà poi più naturale sfogo nei componimenti tutti e deliberatamente lirici di Frantumi, ove l'esperienza dolorosa della sua sensibilità — catastrofica, apocalittica, e il mondo come allucinazione, e la vita come malattia — giungerà a liberarsi, ad aderire, nell'accettata realtà, in una quasi acquiescenza all'idillio, a un presentimento di poesia che davvero assorbe e redime, amarissimo ogni peccato ed ogni patimento umano. Di questo suo stile, di questa ritmica — che il Gargiulo accosta alla ritmica di Jahier — il Boine era cosciente; il che non vuol dire che egli se ne fosse fatta una rettorica, ma che sinceramente tentava di avvicinarla sempre più all'esigenza del suo temperamento, rude e delicato. In una prosa critica narra di aver fatto la rivoluzione contro il ritmo — il ritmo imposto dalla rettorica, non nato da noi — osservando un ballo notturno in un sobborgo.
Tutti i ballerini frenati, legati funereamente ad un congegno melodico ossessivo e intollerabile come la predestinazione. Da quel momento egli ebbe paura del ritmo, come d'una prigione. « Ruppi la mia frase, frantumai ostinato, iroso la mia parola come chi scagli contro il muro il bicchiere ove beve: balbettai, sregolai il mio passo... dicono che qualcuno per questa strada trovi finalmente un suo ritmo fuori del ritmo». Ecco, un ritmo fuori del ritmo; è forse il segreto stilistico di Boine; come un controcanto; come una ricerca di libertà, o un risalire la corrente, come un aderire alla diversità profonda e creatrice dell'azione lirica contro le legature dei concetti, delle rettoriche, dell'invadente, fluente, soverchiante prosa.
Così egli tenta di creare sé stesso, di ricavare, da un individuo, tutto il suo irreducibile rilievo. Fino a che punto vi è egli riuscito? Una volta egli scrisse che bisogna infine, e per forza, credere alla grazia. Non basta l'ascesi, sono inutili i riti e lo sforzo è perduto se la grazia non c'è: «Non c'è arte senza ispirazione, come non c'è salvazione senza la grazia». A Boine, che andò all'arte come a un modo di risolvere il dramma della conoscenza e della moralità, non si può dire che sia mancata la qualità poetica; ma si può forse dire che sia mancata la pienezza, il dono totale dell'ispirazione, quella ch'egli dice la grazia; dagli sforzi rudi e tormentosi per sopperire a quel vuoto ultimo, da quel religioso dibattersi alle soglie del destino, si è sprigionata un'emozione forte, sincera, fraterna, che è ineffabile presenza umana, che è già modulazione di vera, di sofferta poesia.