UN RICORDO A GIOVANNI BOINE
di Francesco Meriano
da Arte e vita
Quaderni della Fondazione Primo Conti -
Libri Scheiwiller, Milano 1982
Parlare di Giovanni Boine significa dimenticare assolutamente che egli è morto nel maggio scorso, trentenne, che aveva scritto ed avrebbe scritto. Quel qualcosa che di lui è vivo, sarà vivo tra dieci anni come adesso. Non era uno scrittore: lo stile ha un tono paesano che non riesce ad essere spontaneo, nemmeno nelle bestemmie: è uno degli artifizi con cui questi condannati alla solitudine cercano di rompere il proprio gelo e riaccostarsi agli uomini. Tentativi infelici: perché, come non era nell'arte, Boine non era nella vita e nell'umanità: il fascino dei rischi metafisici lo incantava.
Contraddizione vivente : tra la tisi che lo struggeva e la costituzione fisica originariamente robusta; tra la predilezione per le situazioni eccezionali e la scoperta di un dovere a cui sacrificarsi. Questo del dovere era per Boine un rifugio del peccatore, una giustificazione esteriore alla sua parsimoniosa debolezza. Il libro che Boine ha scritto tutto da sé, dalla prima all'ultima parola, col suo sangue, il suo dolore, la sua prepotenza esuberante e la sua rabbia contenuta è: Il Peccato, un romanzo quasi autobiografico, dove il soggetto, l'amore per una monaca, non è che il pretesto ad una evoluzione spirituale così ricca da superare facilmente la donna, che si rivela, come sempre, leggera e graziosa: farfalla a cui l'incendio travolgente della passione non ha bruciato le ali variopinte.
È un libro scritto male, che finisce quasi con brutalità, un'opera dove la materia ancora torbida e caotica è riluttante a lasciarsi domare da una forma definitiva, dove alcuni pensieri sono sfiorati appena e lasciati lì all'intuizione del lettore più amoroso, ed altri esplorati, scandagliati, conosciuti in tutti i loro meandri, sino alle ultime e più famose conseguenze. L'ansia di conoscersi era in Boine ostacolata dal concetto del dovere morale che si era imposto; l'esperienza del bene e del male gli mancava : e se s'abbandonava un tantino, ecco il filosofo a rimproverare l'artista. E la constatazione della verità giungeva tanto più inattesa e tormentosa. « E son essi, i giovani, dunque, i vecchi davvero, son essi i morituri e gli astratti.
Non sanno il peccato: han la purità della morte, non la purità della vita. Tu arrivi alla purità sostanziosa se hai molto peccato, " fortemente pec-cato - . Se hai fatto e vissuto, se sei salito, se ti sei provato e risolto. I giovani ipostatizzano il bene e perciò anche il peccato. Contrappongono bene e peccato come se fossero due regni e stando nel bene anatemizzano il male. Perché non han fatto mai il male né il bene, perché non conoscono il fare, non hanno una storia_ Non han niente dietro di loro (e perciò s'accollanó nuovi ed ingenui alla generalità della legge. Son come chi stordito dall'onda afferri uno scoglio alla riva e lo tenga. Ma c'è della spiaggia, ma c'è terra e soda e ricca più ire là) ».
Questo « più in là » conquistato con l'esperienza e non regalato dalla legge era la torturante aspirazione di Boine: una certezza, al di là delle serie convenzionali di giorni, in cui non credeva! L'entusiasmo per l'etica era veramenie un ritorno, una transazione, un bisogno di chiudere gli occhi arsi e riposare": « Io mi converto al codice; risolvo di non dar di me stesso agli altri se non ciò che il codice vuole ».
Per disciplina, Boine ha scritto anche un opuscolo : «Discorsi militari », che è come il suo tributo alla guerra a cui non poteva partecipare. L'esercito, la nazione, la guerra, sono cose spiegate con semplicità ai soldati, e coriama tendenza idealistica attuale. Questo lavoro ha avuto gran diffusione, e può salvare da molti degli errori e orrori nati in tre anni di guerra.
Quasi tutti gli scritti di Boine sono stati pubblicati sulla « Riviera Ligure », la rivista diretta da Mario Novaro, che ha i meriti, la modestia e i difetti di un'antologia: rivista estranea al gran pubblico, e d'una elegante austerità di forma e di sostanza. Lassù Boine, in due pagine di carta velina, parlava dei libri che leggeva, con un certo malgarbo affettuoso. Gli accadeva spesso di sbagliar grosso nei giudizi, e di amare una brutta poesia per un rigurgito amaro di vita che s'illudeva vedervi, o di trovare semplice ingenuità dove non era che impotenza a costruire: secondo che si trovava irritabile o stanco. La cosa più interessante in questo genere di critica personalissima, erano le divagazioni che innestava senza misura sul soggetto.
Ad ogni modo, ha il merito d'aver sentito, con Soffici, Binazzi, Lecchi e pochi altri, la libera e tumultuosa poesia di Dino Campana; e d'aver visto, oltre i versi, in Clemente Rèbora, uno scrittore che può dare dei capolavori: simile a Boine, ma più forte; perché non tentenna tra vita vissuta e vita pensata, ma sa disumanizzare una realtà ultrasentita sino a renderla acciaio, forza, energia. La generazione di Boine e di Rèbora non è letteraria come quella precedente di Papini e Soffici, ancora sotto l'incubo dell'estetismo dannunziano, un po' guasto dal facilismo toscano; non si propone la bellezza, e la trova a uno svolto; urta contro difficoltà di stile e d'espressione, ma, preso l'abbrivo, vola più alto e lontano.
Nei giovanissimi poi non si vede ancora chi sappia sceglier bene da sé la sua via; sono stati tutti, più o meno, influenzati dai movimenti clamorosi degli ultimi anni; ma chi comincia a guardare coi suoi occhi in faccia e in fondo alla vita, è, definitivamente, per questa, contro ogni specie di letteratura.