Sibilla ricorda Dino: una testimonianza diretta
Da: Dino Campana. "Le mie lettere sono fatte per essere bruciate", a cura di Gabriel Cacho Millet
Testimonianza depositata nel 1950, presso l'Istituto Gramsci, Roma Archivio Aleramo
A Firenze, settimane prima, avevo sentito parlare, forse da Franchi, di uno strano volumetto: Canti Orfici, pubblicato in veste meschina a spese dell'autore Dino Campana. L'avevo portato con me in campagna. Lo lessi, ne rimasi abbacinata e incantata insieme, tanto che scrissi al poeta alcune parole d'ammirazione. Egli mi rispose, una bizzarra cartolina. Abitava anche lui in quel momento nel Mugello, nel suo paese nativo, Rifredo (sic). Vi fu uno scambio epistolare, dopo di che ci incontrammo a Barco, un gruppetto di case ad un valico dell'Appennino Toscano.
L'amore divampò, in un delirio selvaggio. Campana era già pazzo, già stato rinchiuso due volte per qualche settimana in manicomio, ma io non volevo crederlo tale, e nei primi tempi, per tutto il mese anzi che passai con lui lassù, in una località detta Casetta di Tiara, egli fu, pur in mezzo a mille stravaganze, molto tranquillo, dolcissimo innamorato come un bimbo. Diceva di non esser più capace di scrivere, ma non pareva soffrirne. Progettava, per l'inverno, di impiegarsi, di lavorare, di vivere con me e per me. Eravamo felici. Scrissi "Fauno". Ma appena sceso a Firenze, a settembre, incominciarono a manifestarsi segni gravi di squilibrio. Tutto il mio passato lo ingelosiva atrocemente.
Volle che andassimo a nasconderci a Marina di Pisa; presi a nolo tra la pineta e il mare una villetta ("ove si disse vi che aveva abitato anche G. D'Annunzio"), ove si rimase solo pochi giorni, egli cominciò a dare in escandescenze, a far scene violente, sino a battermi e a sputarmi in viso. Spaventata, disperata, fuggii a Firenze, dalla Castiglione, dove venne a trovarmi Emilio Cecchi, che mi vide con un occhio pesto, e mi scongiurò di rompere ogni rapporto con Dino, se non volevo perdermi. Ma io l'amavo troppo ancora. Tornai a Marina di Pisa, si andò assieme ai Bagni di Casciana, dove io iniziai una cura di acque calde, ma anche là egli ebbe manifestazioni paurose sin che lo persuasi a partire, ad aspettarmi presso Firenze, da un'amica svedese che affittava stanze, presso Settignano. Là lo raggiunsi, e si visse sino al dicembre, in una alternativa quotidiana e notturna di violenze e disperazioni, che mi rendevano a mia volta folle. Tornai in città, presi una stanza sopra al Ponte di Santa Trinità, chiesi aiuti di denaro per lui a gente ricca.
Egli giungeva, ripartiva, scriveva pentito, implorava perdono e amore. Giunsi ad un tale stato d'esaurimento e di panico, pur col cuore gonfio di pietà e di passione, che mi rifugiai, senza dargli l'indirizzo, presso un'altra amica mia ch'egli non conosceva. Gli scrissi supplicandolo di eseguire il progetto di recarsi in montagna, un luogo delle Alpi piemontesi ov'era già stato, mi pare, e là cercar di ritrovare salute e calma.
Così finalmente fece, e io tornai alla stanza sull'Arno, ma ero disfatta da quei brevi eterni mesi di martirio. Passai tutto l'inverno cosi, squallidamente, attendendo le rade lettere di Dino, aggrappandomi alla speranza d'una guarigione che nel fondo di me stessa sapevo impossibile ormai. Lavoravo alle traduzioni per l'Istituto Francese meccanicamente, e a qualche strofa del Passaggio (v. il cap. Il silenzio e qualche brano inserto nel II).
In aprile ebbi da mio padre l'annunzio della morte di mia madre, avvenuta nel Manicomio di Macerata, dopo oltre vent'anni di reclusione.
La guerra continuava. Franchi era anche lui partito per il fronte. Franchi che aveva sopportato con infinita abnegazione l'esser sacrificato all'amore per Campana, e portò la ferita in sè per innumerevoli anni.
Vedevo qualche volta la de Blasi, la Castiglione, Padre Pistelli, i Luchaire. Tutto è avvolto in una nebbia dolente nel ricordo.
A giugno andai a Milano, per qualche settimana. (Credo m'abbia raggiunta là la notizia della morte di Boine. L'estate prima in Mugello avevo avuto quella della morte di Boccioni soldato). Mi trovavo con i Tallone, non ricordo se Teresa si era già sposata con Somarè. Vidi i Gonzales. (Michele e Rebora erano al fronte).
Ebbi da essi l'indicazione d'un alberghetto alpino ove passar l'estate: Ca' di Janzo, in Val Sesia. Arrivai là, sola, per San Giovanni. Tutta questa fine di giugno fu soleggiata e dolce. L'alberghetto era vuoto, io sola pensionante.
Trovai finalmente un po' di distensione ebbi un po' di requie.
Scrissi la fine del capitolo Le carovane, e tutto quello della Favola.
Leggevo Sofocle e Pindaro. Campana non mi scriveva più, doveva aver lasciato le Alpi ed esser ridisceso in Toscana. Cominciavo a rinunciare alla speranza di rivederlo e riaverlo e agire sul suo destino. Verso la metà di luglio l'alberghetto si popolò di gente tranquilla. Poi ad agosto giunse Luchaire, con la sua seconda moglie, un'italiana, e il loro bimbetto di tre anni. Si fecero gite assieme (una al Col d'Olen, dinanzi al Monte Rosa, dove pernottai e scrissi la breve lirica Orgoglio). Poi essi ripartirono e io tornai a settembre a Milano.
Là, all' Hotel Manin, ebbi un telegramma di Campana, da Novara, che mi supplicava di andarlo a visitare alle Carceri di quella città. Sgomenta, mi feci dare dall'avv. Gonzales una lettera di presentazione per il Procuratore del Re di Novara e accorsi. Campana era stato arrestato per vagabondaggio e insufficienza di documenti, ecc. Il suo aspetto l'aveva fatto prendere per un tedesco. Ottenni di rivederlo attraverso le sbarre. Egli singhiozzava, mi chiamava Rina, Rina, mi baciava le mani fra i ferri. (ved. Passaggio). Fuggii.
Ebbi dal Procuratore la promessa che sarebbe stato liberato. Qualche mese dopo seppi da Cecchi che era tornato in Toscana, e là rinchiuso in manicomio, dove morì 14 anni dopo.