Leonetta Cecchi Pieraccini: Apparizioni di Dino Campana
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Dino Campana visto da vicino
Vallecchi, Firenze, 1952
Ringrazio l'amico Silvano Tognacci per avermi inviato questo testo
(paolo pianigiani)
APPARIZIONI DI DINO CAMPANA
Fu verso il 1913 che incominciarono a circolare, nel mondo letterario italiano, le prime notizie e dicerie intorno a Dino Campana, poeta stravagante e lunatico, sceso dalla nativa Marradi a Firenze, come stazione più prossima, ma reduce da più lontane mète e da complicati vagabondaggi in compagnia di tribù li zingari, di saltimbanchi, di carbonai, di bossiaki russi, di gauchos argentini.
Il Campana stesso ebbe più tardi a confutare l’esagerazione e non vericità di tante romanticherie, ma conferma, negli interrogatori rivoltigli dal medico curante dott. Pariani, dell’Ospedale psichiatrico di Catelpulci (dove il Campana fu ricoverato nel Gennaio del 1918 e (dove morì nel Marzo del 1932), ch’egli s’era dato al vagabondaggio perché non riusciva nello studio della chimica, intrapreso all’Università di Bologna; e che aveva dovuto, di conseguenza, fare varii mestieri per vivere: e cioè il tempratore di metalli, il suonatore di triangolo nella Marina argentina, lo sterratore, il pompiere, il portiere di un circolo a Buenos Aires; il carbonaio e il fuochista sulle navi mercantili. A Odessa, associato a un gruppo di bossiaki, che sono (od erano) una specie di zingari riuniti in comitive di cinque o sei persone, aveva venduto le stelle filanti nelle fiere; e in Svizzera si era impiegato in una baracca di tiro al bersaglio.
Nel 1913 egli era comunque a Firenze, e aveva pronto il libro dei Canti orfici, per il quale non riuscì a trovare editore, neanche a traverso Soffici e Papini, i quali si erano interessati della cosa, e che, per circostanze indefinite, perdettero, a dire del Campana, il manoscritto ch’egli dovette riscrivere tutto a memoria. Nel 1914, finalmente, il volume fu stampato a Marradi; portò una dedica a Guglielmo II, imperatore dei germani e il seguente sottotitolo: Die Tragoedie des letzen Germanen in Italien. Egli spiegò più tardi, in una lettera a Emilio Cecchi, (Maggio 1916) che con tale definizione intendeva mostrare «di avere nel libro conservato la purezza morale del germanico (ideale non reale) che è stata la causa della loro morte in Italia. Ma io dicevo ciò in senso imperialistico e idealistico, non naturalistico. (Cercavo idealmente una patria non avendone). Il germano preso come rappresentante del tipo morale superiore (Dante, Leopardi, Segantini). Così io invocavo giustizia contro la brutalità secolare clericale e popolare e già tre anni fa sapevo, e le giuro che sapevo, che la storia mi avrebbe dato ragione...»
Io conobbi il Campana soltanto nell’inverno del 1916. Fino allora avevo imparato a immaginano, prima ancora che nella sua poesia, sulle indiscrezioni che correvano nell’ambiente letterario in merito alle sue stramberie, le quali già preludevano alla triste conclusione della sua demenza. Si abbandonava per un nulla a cupi risentimenti o a chiassose scenate; e fu il Bacchelli a farci il racconto di un inverosimile attacco di collera a cui aveva assistito a Bologna. Pare che ragionavano, tranquillamente, passeggiando, lui e altri amici, fra i quali il Campana, sotto i portici, quando erano stati sorpassati da una signora che teneva a guinzaglio un cagnolino agghindato di fiocchi, sonagli e cuoi. Il Campana non aveva proliunciato una parola né fatto un gesto di commento; ma prima che gli amici si rendessero conto di cosa stava succedendo, lo videro spiccare un balzo, afferrare la bestiola per la coda e sbatacchiarla con rabbia sul selciato. Succedette un finimondo, naturalmente. Guaiti del cane, strilli della padrona, insulti dei cittadini, proteste dei poliziotti, i quali durarono una fatica birbona a trascinar via il malcapitato che si dibatteva nelle loro braccia con il vigore di un toro furente.
Perché il Campana era forte assai di corporatura: un po’ tozzo di membra e largo di spalle sulle quali poggiava un testone congestionato senza collo, gonfio di barba e capelli rossicci. A volte, specie quando incedeva calcando bene i tacchi, arrembando le spalle e girando attorno gli occhi celesti in atto di sagace e attento raccoglitore di impressioni e di aspetti notabili, era un tedesco spiccicato, scrisse di lui Bino Binazzi in un efficace ritratto, pubblicato nel Resto dei Carlino dell’11 Aprile 1922.