Riccardo Bacchelli nel 1950
Dino Campana triste a morte
di Riccardo Bacchelli
Dino Campana in vita sua n'halfatte tante, che gli c'entrava anche e perfino il proposito, ogni tanto, di far giudizio e di mettersi in regola con la società. Così, anni prima di pubblicare « Canti Orfici », si iscrisse a Bologna studente in chimica nella illustre scuola del grande Ciàmician. Non so quanto ne imparasse, ma credo che la sua carriera di studente e il proponimento della saggezza finissero in una lite, ch'egli ebbe a attaccare non so con chi e non so perchè; forse, come gli avveniva, senza perchè. Fu nei pressi dell'Università, in Via Zamboni.
Era un uomo calamitoso, Campana, quando entrava in uno di quei suoi furori d'anima persa e d'uomo allo sbaraglio.
La lite prese subito un andamento tale da richiedere l'intervento della forza pubblica, di quegli agenti in palandrana azzurra scura e in chepì, chiamati allora « questurini ». Il loro intervento non placò ne intimidì Campana, nato refrattario ad ogni ordine costituito, ribelle di natura. La zuffa diventò grandiosa e disperata con danno dei chepì dei custodi del buon ordine sociale, finchè i questurini pervennero a ficcare il poeta ben pesto e carico di botte in una vettura di piazza, per portarlo in guardina.
Il fatto mi è stato raccontato dall'amico Morandi, l'eccellentissimo pittore, che vi fu testimone, se ben ricordo, o da testimoni n'ebbe notizia; ma in sè, il fatto che Campana leticasse, non aveva nulla di straordinario. La cosa straordinaria, e a suo modo bella, fu che nessuno sforzo della forza pubblica pervenne a ridurre e a far piegare dentro il veicolo, che era una vettura chiusa, le gambe del catturato, tutt'e due.
Una, almeno una, gli riuscì di tenerla, irriducibile, stesa e protesa, rigida, fuori dello sportello chiuso soltanto a mezzo; e la carrozza, se i questurini volloro andare e metter fine a tanto disordine, dovette partire conquella gamba mezza fuori, a insegna d'inflessibile protesta e ribellione.
Si sa che quando Campana infuriava, era da far paura veramente. L'occhio, allora, gli si caricava d'un sereno e d'un azzurro di cielo serenante e azzurreggiante a tempesta, quell'occhio che nella simpatia esprimeva dolcezza e umanità profonde, acume intento e trasognato ad un tempo, tristezza, sempre, d'un irrimediabile e disperato sperimento e presagio di infelicità e di pena. Coraggiosa tristezza, per altro; se no, non Iavrebbe trovata, lui, una così severamente limpida sentenza: che ogni fenomeno è di per sè sereno. Gli accadeva, quando l'ira gli schiariva lo sguardo e gli abbuiava l'animo, di levarsi dal luogo e dalla compagnia, come per fuggire sè e il proprio furore rovinoso.
Ma sovente non gli riusciva, pur fuggendo, di allontanarsi dal luogo e dalle persone, e si metteva a girare nei paraggi e all'ingiro, torno torno, con un suo passo di mezza corsa, con un'andatura da uomo lupesco, stralunato in viso e inselvaggito, brandendo il suo bastone. A volte, sfogato, tornava alla compagnia senza dir nulla; più spesso, si dileguava e spariva. Il bastone era quella rustica mazzetta leggiera e robusta, sul pomo della quale, nei suoi ozi di vagamondo di terra e di mare, non inesperto di carceri e di manicomi, aveva scolpita una faccia scarna e penosa, ch'egli chiamava faccia dell'umanità dolente.
Ma straordinaria, ancor più, che l'ira sua sfogata, era la capacità che egli aveva d'esprimere una qualità di disprezzo freddo, gelidamente. Così quando aveva venduto a qualcuno un esemplare del libro, che vendeva personalmente, prima di consegnarlo all'acquirente, ne stracciava questa o quella pagina, dicendogli che non eran per lui. Poteva essere un attestato di considerazione intellettuale, ma molto più spesso era di disprezzo. Credo che l'aneddoto sia stato raccontato: al Marinetti, fastoso e clamoroso duce del futurismo, tocco questa: che Campana, posatamente, si mise a stracciar pagine una dopo l'altra, questa non era per lui, quest'altra nemmeno; finchè le ebbe stracciate tutte, e gli consegnò: la copertina nuda e vacante.
Era la copertina che recava nel verso la famosa epigrafe in tedesco: « La tragedia dell'ultimo germanico in Italia », mentre i « Canti Orfici » erano stati dedicati nientemeno che a Guglielmo II re di Prussia e imperatore di Germania, per via di quell'umore refrattario e inconciliabile, fantasiante, che d'altra parte dettava al barbuto e biondoscuro toscoromagnolo di Marradi, toscana, una risposta, quando gli dicevano che aveva faccia germanica: — Italiana di quelle buone d'una volta, invece: andate a vedere nei musei. — E veramente somigliava certe faccie donatelliane della scoltura toscana, o della pittura Veneziana, sode e robuste.
Quei suoi umori e risentimenti razziali, simili d'altronde a quello dell'uom selvatico che s'attrista del bel tempo e del brutto s'allegra, si conformavano di fatto a una sua fiera melanconia, a una nostalgia d'ognidove e d'ogniquando, che opera nel suo immaginarsi qual « Faust a Bologna ». E sono fra le pagine di lui più belle, riccamente cadenzate, più calde e colorite, esaltate ed accese, in profondo, dal colore e dalla sensuosità bolognese, mentre la prosa sua più nitida e alata si spiccò dal monte della Verna, la più ariosa e chiara aleggiò nelle piazze luminose della vecchia Genova.
Frattanto, la poesia di quel figlio della Leggiera era stata scoperta dagli scrittori di Lacerba, futuristeggianti e interventisti, come si sa. E l'interventismo prendeva quel sopravvento che anche si sa. Non credo che Campana annettesse intenti politici a quelle manifestazioni d'una germanofilia stravagante, nè poi al provvedimento che prese di sopprimere la dedica e di occultare sotto una striscia di carta incollata l'epigrafe. Seguiva semmai la sua astuzia di fuori regola, la sua malizia picaresca, ch'era poi la medesima, sardonica e sorniona e spregiosa, che balenava nei suoi detti di misantropo acre e disperato, e di intenditore di letteratura, a sprazzi, finissimo, sottile, esigente e impaziente.
A me, benché ci fossimo incontrati pochissime volte, aveva dato il suo maggiore attestato di simpatia: il libro in esemplare integro e non depennato, e l'appellativo di «vivente», «Caro vivente», come intestava le e|sue rare missive, di solito chiuse con l'amara sottoscrizione: «Triste a morte». Fatto sta che una sera a Bologna, mentre aspettavo di giorno in giorno la partenza per il fronte, me lo vidi capitare a casa, perchè voleva andar sotto le armi e alla guerra, e mi chiedeva aiuto e consiglio, avendo sentito parlare di nomine a ufficiale per titoli di studio. Ed egli voleva appunto i esser nominato ufficiale, perchè, diceva, da soldato semplice non se la sentiva. E poteva sembrare strano, con le vite che aveva 'fatto allo sbaraglio delle più ne're miserie di giramondo senza larte nè parte; ma di fatto, e quelle «vite», e il successo del libro, e la considerazione che tesso gli cominciava a procurare, 'gliene davano il gusto e il desiderio, e, come succede, gli levavano la voglia e la lena di ributtarsi ai travagli. Ed era anche stanco, molto comprensibilmente. Me lo ricordo, alquanto imbarazzato e quasi vergognoso di quel desiderio di regolarità, di comodità, di rispettabilità, e d'indossare una uniforme, lui, l'uomo meno uniformarle che io abbia conosciuto! Insomma, era un desiderio moIto umano.
Siccome non sapevo come consigliarlo, lo condussi, a tarda notte, al Resto del Carlino, per ricorrere alla competenza, in fatto di cose militari, di Aldo Vaori, il quale fu cortese con me e con lui, e esaminò il caso. L'esito fu penoso. Risultò infatti che Campana era stato riformato per vizio di mente, il che rendeva improbabile che fosse ripreso sotto le armi, probabilmente impossibile che gli fosse conferito un grado, a meno di non sottoporsi ad accertamenti medici, che nella fattispecie significavano entrare in osservazione in manicomio.
Mi par di rivederlo, quella notte al giornale, come scosse un poco il capo, stancamente, scoiato più che costernato o spaventato, benché fosse ben comprensibile che non si sentisse d'affrontare quel genere di osservazione e d'esperimento, uno che ne sapeva già qualcosa, uno, come di fatto accadde poi, che aveva nel sangue il più orribile fra tutti i morbi. Non disse altro, l'infelice, non disse più nulla, mentre lo accompagnavo, ch'era ormai l'alba, alla stazione: una triste alba, triste a morte, per dire come le cartoline ch'ebbi al fronte da lui. Poi, non ci siamo più incontrati, dopo quell'alba per le strade di Bologna, nella primavera del 1915.