antonio tabucchi

 Antonio Tabucchi

 

Vagabondaggio

 

1.

 

A volte cominciava così, con un rumore impercettibile, come una piccola musica; e anche con un colore, una macchia che nasceva dentro gli occhi e si allargava sul paesaggio, e poi invadeva di nuovo gli occhi e da essi passava all’anima: l’indaco, per esempio. L’indaco aveva un suono di oboe, a volte di danno, nei giorni più felici. Il giallo Invece aveva suono di organo.

Guardava i filari dei pioppi che emergevano dal materasso di nebbia come canne di un organo e su di loro vide la musica gialla del tramonto, con qualche nota dorata. Il treno correva nella campagna, l’orizzonte era un filo incerto che appariva e scompariva fra le ondate di nebbia. Schiacciò il naso contro il finestrino, poi con l’indice scrisse sul vapore condensato del vetro: indaco, nel viola della notte. Qualcuno lo toccò su una spalla e lui sobbalzò.

“Le ho fatto paura?, disse un uomo. Era un anziano signore corpulento, con una catena d’oro sul gilet. Aveva un’aria stupita e insieme dispiaciuta.

“Mi scusi, non credevo…

“Oh niente”, disse lui, e con la mano cancellò in fretta le parole sul vetro.

L’uomo si presentò dicendo prima il cognome. Era un sensale di bestiame di Borgo Panigale. “Vado alla fiera dl Modena”, disse, “e lei va lontano?”

“Non lo so”. rispose lui, “non so dove va questo treno.”

“E allora perché lo ha preso?”, chiese l’uomo con logica, “se non sa nemmeno dove va.

“Per viaggiare, rispose lui, “perché i treni viaggiano.”

Il Sensale rise e tirò fuori un sigaro. Lo accese e sbuffò fuori il fumo. Certo che i treni viaggiano, e noi ci viaggiamo dentro. “Lei come si chiama?”

“Mi chiamo Dino.”

“ E un bel nome. E poi ?”

“E poi cosa?”

“Di cognome.”

“Artista.”

“Di cognome?”

“Sì, Artista. Signor Dino Artista.”

“E’un cognome curioso, non lo avevo mai sentito.”

“L’ho inventato io, è uno pseudonimo.”

“Come sarebbe?”

“Sarebbe che è un nome d’arte. E siccome è un nome d’arte, ho scelto Artista.”

“Allora lei è artista?”

“Proprio così”, disse lui. E scrisse sul vapore del vetro: Dino Artista.

“E artista di cosa, di varietà?”

“Di tutto, di tutto. Giocoliere, principalmente, e poi acrobata. Ora mi è venuta in mente un’acrobazia, un giorno la farò, prima o poi, andrò in America.”

“A fare l’acrobata?”

“No, ci andrò in tram, è questa l’acrobazia.”

“In tram?! Non si può andare in America col tram, c’è al mare.”

“Si può, si può,” disse lui, è difficile ma è possibile.”

“Ah sì,” disse il Sensale, “e come si fa?”

“Magia”, disse lui, “magia dell’arte.” Poi cambiò improvvisamente discorso e si guardò attorno con circospezione. “Il bigliettaio non è ancora passato, vero?”

Il Sensale fece cenno di no con la testa e capì subito. “Non hai il biglietto, giovanotto, è così?

Lui annuì, e abbassò gli occhi come se si vergognasse. “Devo rinchiudermi nel gabinetto di decenza, almeno finché non sarà passato.”

Il Sensale rise. “Stiamo arrivando a Modena”, disse, “se vuoi scendere con me ti offro un pranzo dai Fratelli Molinari.”

 

2.

 

Il Sensale non la finiva più di parlare, era un uomo gioviale, gli piaceva stare in carrozza, dare ordini al vetturaio, assumere quel tono ospitale da persona generosa, si vedeva che gli dava soddisfazione. Disse al vetturaio di passare dal centro, perché voleva mostrare al suo ospite la Ghirlandina: non si può venire a Modena senza vedere Il duomo e la torre. E con la mano guantata mostrava al finestrino le bellezze della città, illustrandole con le parole ovvie di chi non è istruito ma col tono caloroso dl chi ama le cose e la gente. Questa è Piazza Reale, diceva, e ora facciamo il giro di Piazza Grande, guarda in alto, sporgiti dal flnestrino.

Poi la carrozza imboccò una via lunghissima fiancheggiata da palazzi. Questo è il Corso della Via Emilia, diceva il Sensale, è chiamata così perché riprende la via fuori dalle mura, da una parte per Bologna e dall’altra per Reggio. Il nostro ristorante è là, all’angolo con la strada San Carlo.

I Fratelli Molinari era un ristorante ampio e affollato, con tavoli di marmo e grossi attaccapanni dai quali pendevano i mantelli degli avventori. Il Sensale era un uomo conosciuto, e molti lo salutavano. C’era animazione, per via della fiera dell’indomani. Scelsero un tavolo d’angolo, e l’oste arrivò con un fiasco di vino come offerta della casa. In quel ristorante si usava così. Il giovane si guardava attorno con gli occhi svegli. Tutta quella animazione lo rallegrava, nel locale c’era caldo e fumo, dai vetri si scorgeva una muraglia con ciuffi di capperi fra gli intersizi delle pietre, la nebbia era calata ancora di più e rendeva irreali i contorni.

Col cibo e col vino il Sensale era diventato rosso sulle gote e i suoi occhi erano lustri. Mio figlio era un giovanotto come te, si chiamava Pietro”, disse commuovendosi, “è morto dl febbri nel 1902, sono già quattro anni. Poi si soffiò il naso al tovagliolo e disse: “anche lui portava i baffi”.

Quando uscirono stava calando la sera e i lampionai stavano accendendo i primi fanali. Alcuni negozi avevano fiaccole accese vicino alle insegne e sullo stipite di alcune osterie c’erano rami di alloro. Un bambino con una maschera di cartone passò sotto le arcate per mano a una donna. Era febbraio.

“E’ l’ultimo giorno di carnevale”, disse Il Sensale, “resta a farmi compagnia, ho una stanza all’albergo Italia e posso ospitarti, andiamo a divertirci insieme.”

Il giovane lo seguì in silenzio per le strade già deserte. I loro passi risuonavano sul selciato e nessuno parlò. Attraversarono delle arcate e arrivarono a un palazzo di pietra grigia, con un portone pesante. Il Sensale tirò la maniglia di una campana e nel portone si aprì una porticina. Salirono una lunga scala ed entrarono in un vestibolo con un’invetriata piena di colori. Li ricevette una signora molto bionda, con un vestito a fiori, che li fece accomodare in un salottino. Alle pareti c’erano alcuni ritratti di belle ragazze e il giovane si mise ad osservarle con attenzione.

“Ora non è più come un tempo,” bisbigliò il Sensale, “quando la tenutaria era Anna la Ferrarina. Lei sì che se ne intendeva, aveva sempre ragazze di prima qualità. Ma ha sposato un vecchio babbeo di Roma, un professore, è diventata una signora perbene. Ora bisogna accontentarsi dl quello che passa il convento.” Rise brevemente e si mise a osservare il ritratto di una ragazza bruna fotografata con le mani sul cuore.

“Io scelgo questa”, disse, “mi piacciono gli occhi. Tu quale scegli?”
Il giovane Io guardò con occhi sgranati. “Perché devo scegliere?”, balbettò.

“Come perché”
“Perché per cosa?’
“Per cosa?! Come per cosa?”
“Per fare cosa?”
“Il Sensale si portò una mano alla fronte e disse: “oddio”. E poi chiese: “ma è la prima volta?”
“Sr, sussurrò il giovanotto.
“Ma quanti anni hai, ragazzo?”
“Ventuno.”
“E non lo hai mal fatto?”
“0h, senti, non ha importanza, ti insegneranno loro, vedrai che è la cosa più facile del mondo.”
Agitò il campanello che stava sul tavolino e nel corridolo si sentirono rumori e risolini. Arriviamo, arriviamo,
un po’ d pazienza , gridò una voce di donna.

 

3.

 

La fiera si stava disfacendo. Per terra restavano cartacce e i banchi stavano sgombrando. Un bambino passò con una trombetta di carta che si srotolava a suonarla. Vicino alla Posta sostavano le carrozze e i barrocci di mercanzie In partenza per Bologna o per Reggio. Sulla porta della Posta c’era un ambulante. Era un vagabondo magro, con una piccola fisarmonica e un pappagallino in una gabbietta. Aveva un vestito di fustagno e portava una cassetta a tracolla.
“Questo è Regolo”, disse il Sensale al giovane, “va a Reggio e anche più lontano, gira tutte le fiere, ti farà compagnia.”

Il giovane e l’ambulante si strinsero la mano. “Te lo affido”, bisbigliò il Sensale all’ambulante, “prendine cura per un po’, mi fa pensare a mio figlio, è un artista, si chiama Dino.
Il barrocciaio fece schioccare la frusta e il cavallo da tiro si mise in movimento con lentezza. I due si sedettero sul barroccio, con la schiena rivolta al guidatore e le gambe penzoloni. “Addio”, gridò il Sensale, “buon viaggio.”

Il giovanotto balzò giù e gli corse incontro. “Ho dimenticato di darti questo”. disse in fretta, “è un ritratto della donna che conobbi ieri sera, te lo lascio per ricordo.” E rincorse il barroccio che già imboccava la Via Emilia.

Il Sensale aprì il biglietto. Era un foglio gualcito, di carta da imballaggio.

Dentro c’era scritto: Prostituta…
Chi ti chiamò alla vita? D’onde vieni? Dagli acri porti tirreni dalle fiere cantanti di Toscna o nelle sabbie ardenti voltolata fu la tua madre sotto gli scirocchi? L’immensità t’impresse lo stupore nella faccia ferma di sfinge. L’alito brulicante della vita tragicamente come a lionessa ti disquassa la tua criniera nera. E tu guardi il sacrilego angelo biondo che non t’ama e non ami e che soffre di te e che stanco ti bacia.”

 

4.

 

Regolo vendeva arruffi di tutti i colori, che erano matassine di filo per rammendi; e poi romanzi d’appendice a puntate mensili e pianeti della fortuna. I pianeti erano foglietti gialli, rosa e verdi che recavano il lunario e la sorte e che venivano consegnati all’acquirente dal becco casuale del pappagallo Anacleto, pescatore del Destino. Anacleto era vecchissimo e aveva una zampa malata. Regolo lo curava con un unguento cinese comprato Sotto ripa a Genova, dove a volte i cinesi fanno mercato e vendono cianfrusaglie e rimedi per l’artrite, per l’invecchiamento virile e per le ulcerazioni. Ma Anacleto era testardo, protestava alle medicazioni starnazzando con furia. Poi si addormentava sulla gruccia, con la testa sotto l’ala, e ogni tanto nel sonno rabbrividiva e gonfiava le penne.

Forse anche i pappagalli sognano l’indaco, pensava Dino. Il barroccio andava lento, traballando, con un rumore monotono delle ruote cerchiate. La campagna era bella e sconfinata, sempre uguale, con filari di alberi da frutta e campi lavorati. Dino pensò all’indaco, e la musica dell’indaco si sostituì al cigolio cadenzato delle ruote. E quando si svegliò, Regolo lo stava scuotendo per una spalla, perché erano arrivati a Reggio Emilia.

Scesero a Porta Santa Croce, era un pomeriggio chiaro, il barrocciaio fece “Arrì”, e schioccò la frusta e il cavallo proseguì lento. Regolo doveva ritirare degli articoli da un merciaio dietro lo stabilimento di Bagni; così si dettero appuntamento al Caffè Vittorio di Piazza Cavour, e Dino se ne andò da solo in giro per la città, perché voleva vedere la casa dove era nato l’Ariosto. Portò con sé Anacleto appollaiato sulla gruccia, perché a Regolo era d’impaccio e a lui invece faceva compagnia. Sentiva felicità a camminare per le strade di quella città sconosciuta in compagnia di un pappagallo. E così, camminando, cominciò a ritmare i passi con una canzoncina inventata sul momento che diceva: “Me ne vado per strade strette oscure e misteriose: vedo dietro le vetrate affacciarsi Gemme e Rose.”

 

5.

 

Quando Regolo arrivò al Caffè Vittorio, Dino aveva appena finito di lavorare. Sul tavolino erano sistemati in tre mazzette i pianeti della fortuna ordinati secondo il colore.
“Ti devo spiegare una cosa”, disse Dino. “Se io resto con te qualche giorno voglio dare il mio contributo all’azienda, e dunque ti ho completato i pianeti, per ogni pianeta ho inventato una frase.”
Regolo si sedette e Dino gli spiegò in che cosa consisteva il suo contributo. Consisteva nell’abbellire ogni foglietto con una frase d’arte, perché era bello che l’arte arrivasse così alla gente, portata dal becco di un pappagallo che sceglieva a caso fra i foglietti del destino. E quella era la strana funzione dell’arte: arrivare col caso a persone a caso, perché tutto è caso nel mondo, e l’arte ce lo ricorda, e per questo ci immalinconisce e ci conforta. Non spiega nulla, come non spiega il vento: arriva, muove delle foglie, e gli alberi restano attraversati dal vento, e il vento vola via.
“Leggimi qualche frase”, chiese Regolo.

Dino prese un pianeta rosa e lesse: “E me ne andavo errando senz’amore, lasciando il cuore mio di porta in porta.” Poi prese un pianeta giallo e lesse: “Oro, farfalla dorata polverosa, perché sono spuntati i fiori del cardo?” Infine prese un pianeta verde e lesse: Tu mi portasti un po’ d’alga marina nei tuoi capelli, ed un odor di vento.” E spiegò: “Questa frase è dedicata a una donna che un giorno troverò in un porto, ma lei non sa ancora che ci incontreremo.. —

“E tu come sai che vi incontrerete?”, chiese Regolo.

Perché io a volte sono un po’ indovino. Insomma, non è proprio così.”

“E dunque com’è?”

“Immagino così forte una cosa che poi accade davvero.”

Allora leggi un’altra frase”, disse Regolo.

“Di che colore la vuoi?”

“Gialla.”

“E il colore della musica d’organo. Il viola invece ha musica d’oboe, a volte di clarino.”

“Mi piacerebbe sentirne una gialla.”

Dino prese un pianeta giallo e lesse: “Perché si rivela un viso, c’è come un peso sconosciuto sull’acqua corrente la cicala che canta.”

 

6.

 

Se ne andavano di casa in casa, a vendere matasse e a distribuire pianeti. Attraversarono la valle del Crostolo e presero la strada per Mucciatella e Pecorile.

La notte dormivano nei fienili dei casolari e parlavano dl molte cose, specie della volta celeste, perché Regolo conosceva bene le stelle e ne sapeva il nome.

Regolo aveva un’innamorata a Casola che li ospitò per cinque giorni. Si chiamava Alba, era una donna sola con un vecchio padre infermo, e Regolo le faceva da marito una volta all’anno.

In quei giorni Dino lavorò nella stalla per sdebitarsi dell’ospitalità. Era una stalla povera, con un maiale e due capre.

Il sesto giorno partirono e seguirono il letto del torrente Campola per raggiungere Canossa.

C’erano sparsi casolari nei dintorni, ma li saltarono per andare a vedere le rovine del castello. Da quell’altura la vista era magnifica, con la vasta piana del Po sotto di loro.

Là, in quella piana, correva la Via Emilia, come un lungo nastro di promesse, per il Nord, verso Milano; e poi era l’Europa, le metropoli moderne piene dl elettricità e di officine dove la vita pulsava come la febbre. Anche Dino aveva la febbre; ora gli batteva dl nuovo nelle tempie come quel giorno che era salito sul treno alla stazione dl Bologna spinto dall’inquietudine del viaggio. Il cielo era giallo, con macchie viola. Dino sentì una musica d’oboe e lo disse a Regolo. La musica era quella strada che lo chiamava da lontano. Posò per terra la gruccia di Anacleto e abbracciò Regolo con forza. Lo lasciò seduto su una pietra di Canossa e corse in fretta verso la piana, verso la strada.

La strada, e la sua voce di sirena. Pensava: Aspro preludio di sinfonia sorda, tremante violino a corda elettrizzata, tram che corre in una linea nel cielo di fili curvi…” E si diceva: “Vai Dino, cammina più in fretta, corri lontano, la vita è piccola e troppo vasta è l’anima.”

 

Antonio Tabucchi